Sul numero 32 del 7 giugno 2021 di “Osteoporosis International”, l’importante rivista scientifica sostenuta da International Osteoporosis Foundation e National Osteoporosis Foundation USA, sulla quale sono pubblicati i più significativi contributi sulla diagnosi, trattamento e cura dell’osteoporosi e di altre patologie da fragilità ossea, è apparso uno studio dal titolo Polymorphic Variants of Alkaline Phosphatase Gene Correlate With Clinical Signs of Adult Hypophosphatasia, a firma della Professoressa Maria Luisa Brandi. Lo studio presenta i risultati di un’importante ricerca svolta nel campo della diagnosi dell’ipofosfatasia nell’adulto, offrendo dati che potranno aiutare nella diagnosi di questa malattia che ha pesanti conseguenze sulla mineralizzazione delle ossa.
La mineralizzazione delle ossa consiste nella deposizione di cristalli di idrossiapatite nella matrice extracellulare dei tessuti duri: un complesso processo, per il quale è necessaria un’adeguata concentrazione extracellulare di calcio e fosfato. In questo processo è importante il ruolo svolto dalla fosfatasi alcalina (ALP): in particolare quella del tipo tessuto non specifica (TNAP, la più comune nel corpo umano), la quale svolge un ruolo fondamentale nel fornire il fosfato utile alla mineralizzazione. La fosfatasi alcalina non specifica è inoltre fondamentale nel rendere disponibile per il cervello la vitamina B6, che non riesce a passare la barriera emotoencefalica e si accumula nel sangue portando a sintomi neurologici sfumati sino a veri e propri tremori sistemici.
Alcune mutazioni genetiche possono però determinare la perdita di funzione del gene della fosfatasi alcalina tessuto non specifica, con gravi ripercussioni sulla mineralizzazione dello scheletro: si ha allora l’ipofosfatasia. Classificata come malattia rara, nelle sue forme più gravi l’ipofosfatasia colpisce da 1 a 3 persone su 100.000, e in tal caso è diagnosticata fin dal momento della nascita. Esistono però anche forme meno gravi, che si manifestano nell’adulto con un’ampia gamma di manifestazioni cliniche, spesso non facili da riconoscere. Si stima quindi che le forme meno gravi siano molto più frequenti di quanto crediamo, tanto che si ipotizza che l’ipofosfatasia dell’adulto colpisca in realtà circa 1 persona su poco più di 6000 nella popolazione europea, e dati recenti relativi alla popolazione francese vedono varianti benigne del gene presenti addirittura in 1 persona su 500 della popolazione.
A causa della sua rarità e della mancanza di informazioni sul decorso clinico, sulle manifestazioni sistemiche, sulla progressione della malattia, questa malattia, soprattutto nella sua estrinsecazione adulta, è quindi spesso mal diagnosticata o non diagnosticata e, di conseguenza, erroneamente trattata o non trattata del tutto. Infatti le forme più comuni di ipofosfatasia dell’adulto si manifestano con dolore muscoloscheletrico e fratture: sintomi spesso analoghi a quelli di altre patologie metaboliche rare o di altri disturbi ossei più comuni. Nella maggior parte dei casi, la diagnosi della ipofosfatasia negli adulti è scoperta per caso durante esami di routine del sangue (quando si manifestano ridotti livelli di TNAP e elevati livelli di vitamina B6) o in seguito a test specifici, eseguiti dopo che a un altro membro della famiglia è stata diagnosticata la patologia. È invece importantissimo riuscire ad intercettare clinicamente questi casi, per evitare che, a causa della loro fragilità ossea, questi pazienti si vedano prescrivere farmaci antiriassorbitivi, trattamenti farmacologici che sono molto usati contro l’osteoporosi, ma che potrebbero essere molto dannosi in caso di ipofosfatasia.
Lo studio coordinato dalla Professoressa Brandi aveva proprio l’obiettivo di individuare elementi che aiutassero a diagnosticare l’ipofosfatasia negli adulti. In concreto, i ricercatori hanno preso in esame le varianti genetiche polimorfiche della fosfatasi alcalina non specifica in 56 soggetti che presentavano, oltre a un basso livello della proteina stessa, anche frequenti fratture delle ossa lunghe, elemento che può aiutare a confermare un sospetto clinico dell’ipofosfatasia dell’adulto. In questi soggetti sono state così individuate quattordici diverse varianti polimorfiche, con frequenza contemporanea di tre o più di tali varianti principalmente in pazienti che presentavano sia un livello significativamente più basso di TNAP che un livello più alto di vitamina B6, entrambi marcatori di patologia ipofosfatasica.
Un’analisi genetica nella quale sia evidenziata la presenza di più varianti genetiche polimorfe di ALPL può dunque essere uno strumento per confermare dati clinici e biochimici utili ad individuare l’ipofosfatasia negli adulti e guidare così i medici nella decisione di somministrare o meno farmaci anti-riassorbitivi e soprattutto nel prescrivere il farmaco indicato in questi casi, che è proprio l’enzima fosfatasi alcalina non specifica, noto come Asfotase alfa.